Questa intervista esplora la filosofia e la pratica del coaching professionale attraverso la lente degli approcci sistemici ed evidence-based. Matteo Martinuzzi, coach certificato in Pack, condivide i suoi valori fondamentali, la struttura tipica di una sessione e il modo in cui gli obiettivi vengono definiti in modo dinamico anziché statico. I temi centrali includono il superamento delle resistenze favorendo la sicurezza psicologica, l’attivazione di nuove consapevolezze attraverso potenti domande relazionali e la comprensione del vero impatto del coaching oltre la motivazione. Attraverso storie concrete e metafore, l’intervista mette in luce come il coaching possa generare svolte per individui e team, rafforzare le relazioni e produrre cambiamenti organizzativi duraturi.
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Prendersi cura dell’altra persona e della relazione, trasparenza, evoluzione continua, pratica basata sull’evidenza e approccio etico.
Un primo momento di saluto e aggiornamento (anche a livello personale), poi ci si concentra su eventuali novità o progressi dall’ultima volta, si definiscono le priorità per la sessione odierna, si lavora sull’obiettivo principale, si fa una revisione e si crea un action plan, si condividono feedback, si concorda la data del prossimo incontro e infine ci si saluta.
La risposta è sempre: dipende. Dipende dalla persona e dal tipo di lavoro da svolgere. In generale, più che parlare di obiettivi, preferisco parlare di direzione — una sorta di stella polare che ci aiuta a rimanere orientati e a ricalibrare lungo il percorso, soprattutto perché oggi lavoriamo in contesti volatili, incerti e complessi.
Mi piace usare la metafora di un affresco: all’inizio si tracciano solo i contorni, e passo dopo passo si aggiungono colori e dettagli. Alcune parti sono chiare fin dall’inizio, altre emergono col tempo. Questo approccio è coerente con ciò che la ricerca chiama dynamic goal setting: gli obiettivi non sono statici, ma si adattano a nuove informazioni e alla fase in cui ci troviamo.
Quando monitoro i progressi, guardo sia quanto ci siamo mossi nella direzione scelta sia all’allineamento tra la richiesta iniziale del cliente e i suoi reali bisogni, mantenendo sempre una prospettiva sistemica: non solo sull’individuo, ma anche sui sistemi di cui fa parte.
La resistenza spesso non è vera resistenza. Di solito è un segnale che manca il giusto livello di sicurezza psicologica o che la relazione non è ancora abbastanza matura per lavorare su certi temi. È come provare a dipingere un affresco su un muro non preparato: bisogna prima creare le condizioni giuste.
Il mio approccio è incontrare il cliente dove si trova, costruendo un contenitore che gli permetta di sentirsi sicuro e pronto. A volte questo richiede un lavoro preparatorio; altre volte significa riconoscere con umiltà che potrei non essere il coach giusto per quella persona, in quel momento, su quella tematica. In tali casi, la supervisione è uno strumento prezioso: mi permette di rivedere la situazione da un’altra prospettiva e sbloccare nuove possibilità.
Ho lavorato con un team che aveva difficoltà con un importante stakeholder. In una sessione di team coaching online abbiamo ricreato la loro relazione con quella persona ed esplorato la situazione anche dal suo punto di vista.
Il team si è reso conto di come veniva percepito e ha iniziato ad adattare atteggiamenti e comportamenti. Questo ha innescato una reazione a catena con altri stakeholder, portando in poche settimane a un ambiente molto più positivo ed efficace.
Il momento più potente è stato il “click”: la consapevolezza di aver inconsapevolmente alimentato un ciclo negativo e la scelta di costruirne uno positivo. La ricerca sul transfer of learning mostra che il coaching ha impatto reale quando ciò che accade nella sessione si trasferisce nella vita quotidiana. In questo caso, il cambiamento non è rimasto nella stanza — ha trasformato l’intero sistema relazionale del team.
Vorrei ci fosse maggiore chiarezza su cosa significhi davvero lavorare con un coach professionista. Il coaching non riguarda la motivazione rapida, ma è un processo fondato su etica, formazione rigorosa, supervisione e approccio basato sull’evidenza.
In Italia il termine è ancora spesso confuso con “motivazione”. In realtà, il coaching può generare un impatto reale e misurabile non solo sugli individui, ma anche su team e intere organizzazioni.
Mi piacerebbe vedere una cultura più ampia che riconosca il coaching — insieme ad altre pratiche professionali — come una leva essenziale per creare luoghi di lavoro migliori.
Due domande che uso spesso sono:
“Come deve evolvere questa relazione affinché il vostro lavoro insieme sia efficace?”
“Quale cambiamento puoi iniziare a fare per creare quel tipo di relazione?”
Queste domande nascono da una lente sistemica. Spostano l’attenzione dal vedere l’altra persona come “il problema” alla relazione stessa, che è il vero spazio in cui può avvenire la trasformazione.
La ricerca sul coaching sistemico e sulla leadership relazionale mostra che quando i clienti smettono di chiedersi “chi ha ragione o torto” e iniziano a chiedersi “cosa deve cambiare nel modo in cui ci relazioniamo”, si aprono nuove possibilità. Queste domande creano consapevolezza e responsabilità: aiutano i clienti a vedere di non essere impotenti, ma di poter influenzare attivamente la qualità della relazione e, attraverso essa, i risultati.
Il potere sta nella loro semplicità. Non puntano alla “relazione perfetta”, ma a quella sufficientemente buona da rendere efficace la collaborazione. E questo piccolo cambio di prospettiva è spesso ciò che sblocca gli insight più significativi e duraturi.
Le domande sono al cuore del coaching. Non sono solo curiosità — sono interventi trasformativi. Una domanda ben posta può cambiare prospettiva, ampliare o focalizzare l’attenzione, mettere in discussione assunzioni e aprire nuove possibilità. A volte crea un momento deliberato di discontinuità — una pausa che scuote le cose — permettendo al cliente di ripartire da un punto di vista diverso.
Allo stesso tempo, le domande non dovrebbero essere idealizzate o usate meccanicamente. La ricerca sul coaching mostra che il vero valore non sta in una singola domanda, ma nella qualità dell’intera conversazione. Per questo spesso combino le domande con altri strumenti: lasciare frasi aperte che il cliente completi, usare metafore o riformulare prospettive. Questi approcci possono generare insight altrettanto potenti, mantenendo viva e dinamica la conversazione.
Nel mio approccio sistemico, le domande non riguardano solo l’individuo. Sono progettate per portare attenzione alle relazioni e ai sistemi più ampi in cui il cliente opera. L’obiettivo non è trovare la “risposta giusta”, ma creare consapevolezza e scelta — aiutando il cliente a vedere se stesso e il proprio contesto in modo diverso. In questo senso, le domande non sono semplici strumenti, ma porte verso nuove possibilità, personali e organizzative.
La sfida ricorrente sono le relazioni: leader che vogliono migliorare il clima nel team, individui che devono gestire conflitti o conversazioni difficili, team che vogliono rafforzare le connessioni con stakeholder chiave.
Un’altra grande sfida è ottenere più risultati con meno risorse. Anche qui, tutto torna alla qualità delle relazioni: senza fiducia e collaborazione, la pressione cresce e la performance cala.
Il mio ruolo è creare spazi in cui le persone possano osservare la complessità da nuove angolazioni, sperimentare e costruire alternative praticabili. Non esiste una ricetta unica — dipende sempre dalla persona, dal contesto e dalla fase in cui ci si trova.