Intervista a

Lo sviluppo non è una scala da salire, ma un territorio da esplorare

August 1, 2025
3 min

Lo sviluppo non è una scala da salire, ma un territorio da esplorare, fatto di deviazioni, scoperte e il coraggio di cambiare direzione senza sentirsi fuori rotta


In questa intervista: Matteo Melchiorri, HR Leader, esplora le lezioni di leadership apprese dagli errori, il valore di percorsi di sviluppo non lineari e personalizzati e il ruolo della sicurezza psicologica e del well-being per far emergere il potenziale delle persone. Viene sottolineata l’importanza di esperienze diverse, del coraggio dei manager nel valorizzare i talenti e di un approccio people-centric che renda lo sviluppo sostenibile e autentico.

1) Qual è stato un errore che ti ha fatto crescere nella tua leadership?

All'inizio della mia carriera, quando ho iniziato a ricoprire ruoli di responsabilità e ad esercitare la leadership, facevo fatica ad ammettere le mie fragilità. Cercavo in qualche modo di nasconderle, pensando fosse più professionale così. Invece ho capito col tempo che è un errore: ammettere le proprie difficoltà aumenta il livello di autenticità e ha un impatto profondo sul modo in cui si esercita la leadership.

L’errore, quindi, è stato quello di voler apparire sempre solido, senza cedimenti. Ma non è realistico: ci sono momenti in cui ti senti meno capace o in cui ti mancano delle competenze. Condividerlo con il team – in modo consapevole – ti fa crescere, attiva maggiore fiducia e connessione, e paradossalmente porta a un output più forte, più autentico, più vero.

2) Cosa rende efficace un percorso di sviluppo oggi?

Viviamo in un mondo del lavoro sempre più complesso e meno lineare. Le organizzazioni si muovono in contesti in continua evoluzione, e per questo credo che la crescita professionale oggi sempre di più passi attraverso la maturazione di esperienze diverse tra loro.

Apprendimento e sviluppo sono concetti molto vicini: vivere situazioni nuove ti permette di osservare i fenomeni da prospettive differenti, di acquisire nuove competenze, costruendo così un percorso di crescita più solido.

Molti manager spingono per una crescita verticale, ma credo che questa visione oggi vada sfidata: aprirsi a esperienze orizzontali – che arricchiscano in ampiezza – può davvero fare la differenza.

In sintesi: un percorso di sviluppo efficace credo sia quello che offra la possibilità di vivere esperienze molteplici, che spingano l’individuo ad espandere i confini del proprio perimetro di attività e di competenze.

3) Come si possono disegnare percorsi che siano allo stesso tempo scalabili e personalizzati?

È un apparente trade-off… ma credo che la chiave stia nel costruire percorsi il più possibile “su misura”, che combinino strumenti diagnostici (skill mapping, assessment, sistemi di feedback, etc.) con un’ampia offerta di strumenti di sviluppo (piattaforme di training, coaching/mentoring, etc.) – anche o soprattutto digitali. La tecnologia oggi infatti permette di scalare l’accesso agli strumenti di formazione e sviluppo, ma la responsabilità della propria crescita deve comunque restare nelle mani del singolo, affinché definisca il percorso che meglio funzioni per sé.

Certamente serve accompagnamento: non basta offrire un menu ampio, bisogna anche guidare le persone nel costruire il percorso che abbia senso per loro.

In questo modo, metti insieme ampiezza e profondità, e il percorso diventa davvero personalizzato pur restando scalabile.

4) Qual è la differenza tra far crescere un talento e riconoscere un potenziale?

Al di là dei vari sistemi di mappatura del potenziale adottati dalle aziende, la verità è che il potenziale quando c’è si vede. Le persone brave emergono. Certo, la distinzione fra potenziale e performance è forse utile a livello teorico, ma io credo che sia difficile che ci sia vero potenziale senza performance, e viceversa.

Detto questo, far crescere un talento richiede coraggio: bisogna affidargli responsabilità crescenti, anche su progetti che sembrano “più grandi” rispetto alle esperienze maturate dalla persona. È così che si crea crescita vera.

Valorizzare il potenziale significa osare: lanciare sfide nuove, più complesse, e vedere cosa succede. I manager bravi sono quelli che alzano l’asticella, affidandosi ai talenti delle proprie persone, facendo leva sulla loro learning agility, apertura al cambiamento, voglia di uscire dalla zona di comfort.

Alla fine, se il potenziale c’è, lo vedi nei risultati. Quando il potenziale si attiva, diventa reale, diventa performance. Lì lo riconosci davvero.

5) Come si può creare un ambiente dove le persone vogliano e possano esprimere il proprio potenziale?

Serve un ambiente dove ci sia la cosiddetta sicurezza psicologica, che consenta di esprimere creatività, di sperimentare, anche di sbagliare. La cultura dell’errore è fondamentale: l’errore è fonte di apprendimento, è ciò che stimola l’intraprendenza.

Un’organizzazione che funziona non è quella dove tutti seguono perfettamente il processo o rispettano strettamente la propria job description, ma quella dove processo e job description rappresentano soltanto un punto di partenza, un perimetro da espandere.

Ed ecco che diventa fondamentale il wellbeing, lo “stare bene” al lavoro. Il well-being non si esaurisce in una serie di iniziative di welfare, ma è molto di più. Significa creare le condizioni per un ambiente di lavoro che offra benessere a tutto tondo, mentale, emotivo, relazionale, fisico. Anche lo spazio è di cruciale importanza: se creo ambienti aperti, accoglienti, trasparenti, favorisco benessere e collaborazione.

Il well-being non è un add-on, è una leva strategica.

6) Qual è un esempio concreto di benessere organizzativo che ti ha colpito o che hai contribuito a costruire?

In Fastweb negli ultimi anni ci siamo più volte interrogati su come usare al meglio il budget dedicato al well-being, che ovviamente non basta mai. Abbiamo quindi deciso di attivare dei meccanismi di ascolto, chiedendo direttamente alle persone che cosa fosse per loro più importante.

Da alcune survey, ad esempio, è emerso con forza il tema del caregiving, cioè l’assistenza ai propri cari. Così abbiamo cercato di costruire programmi ad hoc, customizzabili sulla base delle esigenze specifiche.

È un piccolo esempio, ma che credo ben rifletta il concetto di people centricity.

7) Qual è una convinzione sullo sviluppo delle persone che pensi dovremmo abbandonare?

Torno un po’ al concetto che ho espresso all’inizio di questa intervista… Troppo spesso si pensa – sia a livello personale sia manageriale – che lo sviluppo debba essere lineare e verticale.

Invece, lo sviluppo è fatto di discontinuità, cambi di direzione, esperienze diverse, movimenti orizzontali.

Se una persona è esperta in un ambito, perché non potrebbe cambiare? Offrirle nuove opportunità è il modo per farla crescere e trattenerla. Cambiare direzione non significa ricominciare da zero, bensì arricchire il proprio percorso.

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